Come combattere l’abilismo nella relazione coah-coachee

abilismo

Come combattere l’abilismo nella relazione coach-coachee

Come dovrebbe approcciarsi un coach ad un cliente disabile?

Come può superare l’abilismo interiorizzato e le sue false credenze per aiutare efficacemente il suo coachee?

Disabilità

Partiamo dall’inizio e chiariamo chi sono le persone disabili, che costituiscono il 15/ 20% della popolazione mondiale[1], rappresentando quindi la minoranza più numerosa al mondo! Significa che ogni 10 persone circa, 2 sono disabili, ovvero ciascuno di noi conosce o ha a che fare con delle persone disabili o è a sua volta disabile.

Disabilità è un termine ombrello, poiché questa parola racchiude molteplici significati. Sarebbe sbagliato considerarla solo come un “problema di salute”, si tratta invece di un fenomeno complesso che riguarda l’interazione tra i corpi e la società in generale.

Se in passato parlare di disabilità faceva riferimento ad una serie di caratteristiche fisiche e mentali da “riparare”, col tempo questo termine ha cominciato ad indicare le limitazioni poste ad alcune persone da una società abilista, oltre ad alcune questioni legate alla loro identità.

L’Attivismo Disabile e i Disabilty Studies hanno avuto il merito di spostare l’attenzione dal discorso medico (situazione di salute contingente) al modello sociale di disabilità, secondo cui la disabilità è una condizione socialmente costruita! Le persone cioè, che si trovano in questa condizione, vivono in un ambiente che rende loro arduo, se non impossibile, condurre una vita piena e soddisfacente.

 

In cosa consiste l’abilismo.

Ma ora vediamo cosa si intende per abilismo.

  • L’abilismo è lo stigma o la discriminazione verso le persone disabili.
  • È un sistema di pensiero che si traduce in una struttura di potere (come razzismo, sessismo o specismo).
  • È un’oppressione sistemica, nella quale cioè siamo tutti immersi.
  • È un sistema di potere che attribuisce valore a corpi/menti non disabili (performanti secondo standard arbitrari seppur maggioritari), marginalizzando gli altri.

Stigmatizzare una persona o un gruppo sociale, significa attribuirgli solo caratteristiche negative (essere disabile è un male); inoltre paragonare l’abilismo al razzismo o ad altre forme di oppressione e di potere ci fa comprendere quanto sia diffuso nel tessuto sociale e politico.  Ma evidenzia anche come, a differenza ad esempio del razzismo, sia molto più subdolo. La maggior parte delle persone non riconosce di essere abilista,  credendosi invece tollerante e solidale nei confronti delle persone disabili.  E questo è molto pericoloso.

Poiché il linguaggio è anche in questo caso rilevante, è utile fare chiarezza su quali termini usare quando ci si riferisce alle persone disabili.

La comunità attiva ha scelto due termini principali:

  1. persone con disabilità (person first) se si vuole dare priorità alla persona;
  2. persone disabili (identity first), se si vuole invece privilegiare l’identità.

Oggi viene proposta una terza alternativa, persone disabilitate, con la quale si sposta l’attenzione dal soggetto alla società, che viene riconosciuta come responsabile della situazione di svantaggio del soggetto. Da notare a questo proposito come la narrazione dominante, anche in sede istituzionale, sia quella per cui la disabilità (compreso il disagio mentale) sia qualcosa che riguardi l’individuo (o al massimo la famiglia di origine), e che sia relegato perciò ad un problema della sfera privata, in cui la società non c’entra nulla.

Le questioni socio economiche vengono quindi escluse dal discorso sulla disabilità come se la società non avesse responsabilità in merito! È qui che si cela la trappola: le lotte per le pari opportunità o per l’accessibilità si trasformano in questioni private! Quando invece è necessario ricordare che deve essere la società a cambiare e a adattarsi alle esigenze di tutti i suoi componenti riconoscendo loro il diritto di esistere.

Il coach quindi dovrà sempre chiedere al suo coachee come preferisce essere chiamato, perché è appunto solo lui/lei a poter stabilire in quale definizione si riconosce.

Potrà anche succedere che per il cliente sia invece la prima volta che si trova a riflettere su certi temi e il coach dovrà quindi essere preparato a offrire il suo supporto. inoltre riconoscere di essere inserito in questo contesto e di aver interiorizzato l’abilismo. E poi decostruirlo!

 

Inspiration Porn

Spesso facciamo riferimento alla vita delle persone disabili o le includiamo per esempio nella narrazione cinematografica, solo come termine di paragone, per ricordarci quanto siamo fortunati a non essere come loro. O ancora peggio le usiamo come fonte di ispirazione. Quando Stella Young, attivista disabile, affermava dal palco del TED Talk 2012 “I’m not your inspiration”, si riferiva ad una specifica pratica legata alla performatività dei corpi. Con il temine Inspiration Porn la Young indicava la narrazione che vede le persone disabili come fonte di ispirazione e che racconta la disabilità come un limite da superare. Una narrazione secondo la quale se sei disabile puoi essere accettato nella misura in cui tu faccia cose straordinarie, eccella in qualche cosa, che tu sia insomma un super disabile! Questo tipo di argomentazione trascura la realtà della maggioranza delle persone disabili che, esattamente come quelle non disabili, non sono geni ma hanno, ciononostante, diritto a vivere vite significative e piene, indipendentemente da titoli accademici o dalle imprese eccezionali compiute!!!

 

L’illusione del corpo abile

Il corpo abile nella nostra società è lo standard a cui aspirare, qualsiasi deviazione da quella norma è vista come problematica o indesiderabile (per corpo si intende qui l’insieme di corpo-mente).

La società è quindi costruita per soddisfare i bisogni solo di alcune persone. Certi bisogni sono cioè accettabili nella misura in cui è una maggioranza ad averli (la maggioranza determina cosa è normale).

Il primo punto allora da accettare e da far accettare potenzialmente al nostro cliente (non dimentichiamo che le stesse persone disabili possono essere abiliste proprio perché cresciute in questa società!!!) è che l’abilità del corpo è un concetto fluido.

Se ci fermiamo a pensare possiamo osservare, ad esempio, che il processo di invecchiamento interessa tutti e che naturalmente potrà renderci meno abili e performanti, oppure che nell’arco della vita potremmo essere vittime di incidenti o malattie invalidanti, o semplicemente la stanchezza potrebbe inficiare la nostra performance in un dato momento.

Quello che dobbiamo inoltre sottolineare è come nella nostra società siamo tutti interdipendenti, eppure la sola dipendenza che ci spaventa e ci sembra indesiderabile è quella che riguarda le persone disabili. Siamo di nuovo di fronte ad un costrutto sociale, ad una falsa credenza da smantellare.

La società dei consumi ci ha fatto credere che il nostro valore risieda nella nostra capacità produttiva, nell’autonomia e nell’efficienza. Ciò ci spinge a cercare di dare il massimo anche quando il nostro corpo ci chiede di fermarci. Fortunatamente oggi si sta diffondendo una contro-cultura in cui si afferma l’importanza del riposo, la così detta self-care, e l’attenzione per i segnali di stress e esaurimento che ci lancia il nostro corpo.

Perché allora ciò non dovrebbe valere anche nel caso delle persone disabili? Perché il loro è un diritto meno riconosciuto? Perché di nuovo l’abilismo ci fa credere che i loro corpi anormali valgano di meno!

Sono corpi da medicalizzare, oggettivare, giudicare e infine disprezzare, a cui spesso è preferibile la morte!

Il compito del coach è allora quello di rendere il coachee disabile consapevole di cosa sia l’abilismo e di come contrastarlo per poter comprendere in modo più equilibrato la propria esperienza nella società.

Per esempio è di fondamentale importanza distinguere la condizione medica dalla disabilità. Se consideriamo la disabilità un aspetto della varietà umana, questo cambiamento di paradigma ci permette di superare l’idea nefasta per cui invece sia un problema medico da superare.

In realtà guardando le cose da questa prospettiva ci rendiamo conto che è il contesto sociale fatto di inaccessibilità e esclusione a dover essere corretto!

 

La piramide dell’abilismo

L’abilismo consiste quindi in una piramide di discriminazione che va dall’indifferenza e arriva al genocidio, passando per il paternalismo (non considerare la volontà della persona, oppure infantilizzarla), la negligenza (non curarla adeguatamente o sottovalutarne i sintomi), la svalutazione (non riconoscere il valore della persona e le sue esigenze), la discriminazione (non rispettarne i diritti), la segregazione (creare luoghi, come case di cura o classi differenziate, in cui vengono isolate) e la violenza diretta (omicidi e crimini d’odio).

Conoscere e riconoscere lo stato delle cose è il primo step per superare questa situazione.

Un ulteriore passo in questa direzione è aiutare il coachee a comprendere che l’abilismo non è solo interiorizzato dalle persone disabili ma è anche orizzontale!

  1. Interiorizzare l’abilismo significa cercare di nascondere la propria disabilità, rifiutare i supporti utili (come la carrozzina), evitare di frequentare le altre persone disabili, considerate in modo degradante (io non sono come loro!), abbassare gli standard e sentirsi sempre in debito verso gli altri, oppure sentirsi in dovere di compensare la disabilità con altre caratteristiche o capacità!!!
  2. L’abilismo orizzontale è quello che porta le persone disabili a criticare le altre persone disabili, a sentirsi migliori, o ad escludere a priori una relazione con un’altra persona disabile (non ci si deve “accontentare”). È cercare di adattarsi alle aspettative della maggioranza, di somigliarle e cercarne l’approvazione.

Intersezionalità

Un’altra questione di cui tener conto, infine, riguarda il concetto di intersezionalità. In sociologia e giurisprudenza è stato introdotto questo termine nel 1989 dalla giurista e attivista Kimberlé Crenshaw per descrivere la sovrapposizione di diverse identità sociali (genere, etnia, disabilità, orientamento sessuale) e le relative possibili e particolari discriminazioni, oppressioni, o dominazioni. La lotta quindi per il conseguimento dei diritti di alcune categorie non può prescindere da quella delle altre.

Per concludere possiamo aiutare il coachee ad affrontare la disabilità in relazione:

  • All’identità.
  • Alla cura.
  • Ai mass media.
  • Alla famiglia.
  • Alle violenze.
  • All’integrazione.

Compiere insieme questo viaggio aiuterà sia loro che noi a uscirne persone migliori.

 

 

Riferimenti bibliografici: E. Paolini, M. C. Paolini, Mezze Persone, Aut Aut edizioni 2002. E. Paolini, M. C. Paolini, Che brava che sei, i Robinson, 2023. S. Taylor, Bestie da soma. Disabilità e liberazione animale, Edizioni degli animali, 2021. B. G. Bello, Intersezionalità. Teorie e pratiche tra diritto e società.

[1] World Health Organization, Summary: World Report on Disability, 2011.

L’empatia

l'empatia

L’EMPATIA

 

Per essere un/a bravo/a coach e per comunicare in maniera efficace è necessario avere una buona capacità di ascolto e di empatia!

Ma che significa essere empatici? Per essere empatici bisogna riuscire a mettersi nei panni degli altri, sentire i loro stati d’animo, i loro sentimenti e le emozioni. Ciò non vuol dire condividere il loro punto di vista, ma mettersi in una posizione di dialogo aperto e sincero, cosa fondamentale quando iniziamo una relazione di coaching.

L’empatia nasce dall’autoconsapevolezza: più siamo capaci di percepire le nostre emozioni, più facilmente capiremo quelle degli altri!!!

 

“Prima cerca di capire, poi di farti capire”[1]

 

Questa è la quinta regola che Covey espone nel capitolo dedicato alla comunicazione empatica. Se comunicare è la più importante delle facoltà, dobbiamo essere consapevoli che l’altro ci concederà la sua fiducia solo dopo essere entrato in connessione con noi, solo dopo che si sentirà capito.

Questo modello richiede un cambio di paradigma: capire l’altro attraverso l’empatia e poi farsi capire. Significa osservare il mondo nel modo in cui lo osserva il nostro interlocutore e capire cosa prova.

Ma empatia non è simpatia. La simpatia è una forma di accordo e quindi di giudizio. L’ascolto empatico non prevede l’accordo con qualcuno, ma capirlo profondamente a livello emotivo e intellettuale.

La comunicazione empatica è l’unica che può essere davvero influente e efficace per un/a coach (e non solo) perché, dopo la sopravvivenza fisica, il più grande bisogno dell’essere umano è quello di essere capito!

 

EMPATIA E INTELLIGENZA EMOTIVA

 

L’empatia è una componente fondamentale dell’intelligenza emotiva (EQ)!

È proprio Covey[2] a spiegarci cosa si intende per intelligenza emotiva e perché è tanto importante nelle relazioni e nella comunicazione.

“L’intelligenza emotiva è la conoscenza di sé, l’autoconsapevolezza, la sensibilità sociale, l’empatia e l’abilità di comunicare efficacemente con gli altri. È capire quando è il momento giusto, interagire socialmente in maniera appropriata, avere il coraggio di ammettere le proprie debolezze ed esprimere e rispettare le differenze.

Alla luce di ciò è importante identificare alcuni punti per poter stabilire una connessione empatica con chi ci ascolta:

  • Quali sono le caratteristiche principali del nostro coachee;
  • Quali sono i suoi valori;
  • Quali sono le sue aspettative rispetto al nostro percorso;
  • Quali difficoltà può riscontrare e come puoi aiutarlo;
  • Quali sono i suoi desideri (obiettivi);
  • Bisogna infine creare una connessione attraverso ethos, pathos e logos; devi cioè conquistare la sua fiducia con la tua credibilità, suscitare le emozioni connesse ai suoi valori e usare argomentazioni valide!!!

Ricorda infine che nella relazione di coaching il protagonista è sempre il coachee con il suo obiettivo!

[1] S. Covey, Le 7 regole per avere successo, 1989, Franco Angeli.

[2] S. Covey, L’ottava regola. Dall’efficacia all’eccellenza, 2005, Franco Angeli.